Percorrere il Camino de Santiago de Compostela è oggi diventata una moda. Non si contano le guide, i blog e le testimonianze che raccontano con dovizia di particolari, aneddoti, storie il più famoso percorso di pellegrinaggio del mondo. Tuttavia, in questa vera e propria Santiagomania non è talvolta difficile cogliere un vago autocompiacimento che nulla ha a che fare con il vero spirito del pellegrinaggio.
Trent’anni fa con un’utilitaria di seconda mano, una figlia di tre anni, una tenda canadese e un po’ di incoscienza, partii per compiere il Camino di Santiago. Allora il Camino non lo conosceva nessuno, tant’è che l’unico supporto che potei usare per seguire le tappe, da Tolosa alla meta finale, era un opuscolo spagnolo. Fu un’esperienza importante e a lungo preparata, una specie di rendimento di grazia per un periodo difficile ma entusiasmante della mia vita. Eppure quando alla domanda “Ma tu hai fatto il Cammino?” rispondo che “Sì, l’ho percorso tutto, 30 anni fa, in macchina” vedo storcere il naso e comparire un certo sorrisetto di commiserazione perché, evidentemente per molti camminatori il “vero pellegrino” è quello che si fa il percorso a piedi (non tutto però, perché ci vuole troppo tempo e fatica..) ma bastano anche delle piccole tranche, tanto per poter dire di averlo fatto. Nutro ovviamente ammirazione e rispetto per ogni vero pellegrino, ma per favore, evitiamo lo snobismo di chi sostiene che “a piedi vale di più”. Per sostenere la mia tesi lascio che siano le parole di uno dei più grandi studiosi del Pellegrinaggio medievale, il professor Raymond Oursel a mettere a fuoco alcuni concetti che, a mio parere, vengono un po’ troppo spesso dimenticati.

Il libro a cui faccio riferimento è intitolato “Vie di Pellegrinaggio e Santuari” ed è pubblicato in Italia da Jaca Book. La prima osservazione interessante la troviamo a pagina 21. Scrive infatti Oursel “Il pellegrino del buon tempo antico non sempre meritava la dignità, declamata fino alla noia di “Camminatore di Dio”; più di uno, a cominciare dal o dagli autori della famosa Guida del pellegrino di Santiago, documento indubbiamente unico nel suo genere, viaggiava a cavallo.” Quello che il professor Oursel vuol sostenere nel suo brillante racconto è che quel che davvero conta non è tanto il mezzo con cui si compie il pellegrinaggio quanto il fine. “Il pellegrinaggio è l’atto volontario e disinteressato con cui un uomo abbandona i suoi luoghi consueti, le sue abitudini e gli stessi suoi familiari, per recarsi con animo religioso, fino al santuario che egli si è liberamente scelto o che gli è stato imposto.” (E.R. Labande Pèlerin du Moyen Age, citazione): partendo da questa definizione, apparentemente dogmatica, del suo dotto connazionale, Oursel approfondisce, compiti, doveri, motivazioni del pellegrino. Chiarisce che il Camino descritto dalla Guida era solo uno dei cammini possibili e non aveva per questo alcun valore spirituale superiore agli altri, innumerevoli, che coprivano l’Europa medievale, né tantomeno era importante arrivare alla meta da una parte o dall’altra: “C’è forse un equivoco – scrive Oursel (op. cit pag.27)- nella vocazione che certi viaggiatori diretti a Santiago riservano al famoso Camino con la quale viene a crearsi, a spese della semplice giustizia e in modo abusivo, una gerarchia nei privilegi riconosciuti al pellegrinaggio cristiano...” Oursel continua ironizzando sul fatto che arrivare a Compostela da una direzione piuttosto che da un’altra posso avere un merito maggiore ma poi aggiunge: “A maggior ragione, il viaggio effettuato per ferrovia, in auto o in aereo sarebbe forse privo di valore, per il solo fatto che vi mancherebbe, se non proprio la fatica (che non è necessariamente fattore di arricchimento spirituale) quanto meno la dimensione religiosa dello sforzo liberamente accettato e perseverante?” Ai sostenitori della bizzarra teoria secondo cui, quando si faccia un pellegrinaggio, conti maggiormente la forma (il mezzo con cui lo si compie) che la sostanza (il motivo per cui lo si compie) Oursel risponde con una affermazione che dovrebbe essere scontata: è cammino di pellegrinaggio quello che si vuole considerare tale, quale che sia la natura dell’impegno e quali che siano i mezzi di trasporto prescelti, le caratteristiche del percorso, la sua lunghezza, le sue difficoltà, i suoi pericoli e i suoi ostacoli. La legge fondamentale, la fondamentale funzione del pellegrinaggio è e rimane comunque soprattutto pentienziale.
Si può camminare tanto o poco, si può anche entrare in una chiesa solo per avere un timbro, si può godere del silenzio e del lento incedere tra i campi o sui monti. Ogni esperienza è bella e costruttiva. Lo è anche camminare da un rifugio all’altro o costeggiare le rive di un lago seguendo una pista ciclabile: si parla di deambulare, faticare, meditare, sognare, finanche rinascere. Un pellegrinaggio però è qualcosa di diverso e chi lo compie in auto, in treno, in bus, in bicicletta o in moto, non ha da rendere conto a nessuno se non alla propria coscienza.
Qualche anno fa ho fatto un pezzo di Camino: da Saint-Jean-Pied-de-Port a Pamplona. A piedi. Durissima la salita e poi lo scavallamento che porta a Roncisvalle. Per uno come me poi che non cammina mai e che si vanta di essere un a-sportivo dalla nascita è stata una prova sovrumana. Ma sono stato contento di averla, non so come, superata, come del resto sono stato contento di arrivare a Pamplona (la corsa dei tori e la festa che la circonda è uno spettacolo straordinario) dove mi sono fermato causa vesciche prima dell’ultima tappa. Che invece hanno percorso, spavaldi, i miei due compagni di viaggio. Una bella esperienza, soprattutto perché con Maurizio e Gianfranco si sono fatte belle discussioni, scambi di esperienze e di idee, belle mangiate e bevute. Niente, almeno per me, di spirituale, nessuna occasione di penitenza, nessun percorso intimo: sono ateo convinto. Anni prima con la famiglia, sui Pirenei, avevo già incrociato, in auto, il Camino. E apprezzato i paesaggi. Che si faccia a piedi, a cavallo, in bicicletta o anche per alcuni pezzi in auto per me non ha nessuna importanza: conta il piacere che si prova facendolo: stare con gi amici, conoscere persone, nuotare nei fiumi, visitare chiese e paesini.
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Certamente uno dei motivi che spingono le Amministrazioni locali a riattivare o, più frequentemente, inventare a tavolino questi “cammini” ha a che fare con quello che racconti tu.. piacere di mettersi alla prova, di rallentare i ritmi, di parlare con amici magari anche di cose non banali ma anche, perché no, di apprezzare aspetti enogastronomici. Basta non chiamarli pellegrinaggi…. come tu correttamente precisi. Grazie!
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