L’incontro con un giovane monaco nel Collegio Benedettino di Sant’Anselmo a Roma mi svela il valore della rinuncia monastica
Quando arrivai al Collegio di San’Anselmo non sapevo che cosa aspettarmi. Sapevo che in questo edificio, di forme vagamente neo romaniche, posto in posizione straordinariamente tranquilla sul colle dell’Aventino vengono da tutto il mondo giovani monaci per completare la loro formazione. Venni accolto con molta cortesia da un raffinato monaco canadese che fu per tutti i giorni della mia permanenza la mia guida. La vita di questa abbazia “super partes” segue i ritmi e le regole di ogni altro luogo benedettino: liturgia delle ore, pranzi in refettorio accompagnati dalla lettura di passi della regola di San Benedetto, lavoro, che qui è quasi totalmente intellettuale.
Il momento di massima emozione lo ebbi la prima sera, quando nel vasto coro in legno profumato, mi ritrovai con monaci di tutto il mondo, ciascuno con l’abito tipico della propria congregazione, ma tutti uniti per il tempo della preghiera da una lingua comune che appariva formalmente come il latino ma che era in realtà qualcosa di ben più profondo. Ebbi poi modo di conoscere, in modo molto superficiale a dire il vero, perché i loro studi e le mie ricerche non ci lasciavano molto tempo, alcuni di questi monaci e scoprii che si trattava di giovani assolutamente normali, con cui si finiva a parlare di sport, politica, letteratura. Un dialogo però mi rimase particolarmente impresso nella memoria. Mi trovavo nel chiostro con un monaco italiano. Mi confidò di essersi appena laureato col massimo dei voti in ingegneria ma di aver deciso di lasciare tutto per seguire la sua vocazione. Voleva essere umile e semplice e dimenticarsi la sua erudizione recente. Però adesso era lì, pronto a conseguire una seconda laurea. L’abate della sua abbazia, conoscendo il suo valore intellettuale lo aveva inviato al Collegio in rappresentanza della sua comunità, sebbene questa fosse l’ultima cosa che avesse desiderato quando aveva deciso di prendere l’abito monastico.
Il voto più difficile da sopportare, mi disse, non è quello della castità, come molti superficialmente pensano. Il voto più difficile è quello dell’obbedienza!
When I was in the Benedictine Collegium Anselmianum in Rome I met a lot of young monks students coming from all over the world, attending their bachelor degrees in this strange and silent place, in the heart of the city. Collegium it’s a huge, heavy building in New Romanesque Style, where you can see all the Congregations best novices praying, studying, working together. The night office of Compieta it’s a very strong moment in the guest daily life, because You can listen to the Gregorian singing voices of monks, speaking different languages in their common life, join one common language that’s not the simple Latin but something of deepest and wonderful. One day, walking in the cloister, I met a young Italian monk. He had just achieved his Graduation in Engineering when he decided to change it’s life, became a monk, and follow an humble easy life of manual works.
But his abbot decided to send him in Rome because he saw that the young engineer was the most clever member of his monastic community. “The hardest of the monastic vows – he told me – it’s not chastity, as someone could believe, the hardest vows it’s Obedience!”
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