Ho già parlato molte volte di Kyoto, una città che ho molto amato e a cui ho dedicato il libro Lo Spirito di Kyoto. Questa volta vi propongo un estratto del primo capitolo del libro, dedicato al santuario scintoista di Kamigamo. Si tratta di un luogo davvero fantastico, che non tutti visitano, pieno di quella strana e primordiale magia che pervade alcuni luoghi sacri della religione ancestrale del Giappone.
Prima di varcare il torii (arco d’ingresso) esterno del santuario Kamigamo, cerco di immaginarmi come fosse Kyoto prima di Kyoto, quando questa fertile valle percorsa da fiumi, di cui il Kamo-gawa era il principale, non era ancora stata trasformata dalla visionaria megalomania di un imperatore nella grande e organizzata capitale di foggia cinese che sarebbe rimasta per secoli. Immagino montagne popolate di spiriti potenti, ciascuno venerato in un santuario, villaggi di capanne dal tetto di paglia in cui il sacerdote sciamano fungeva da tramite tra la divinità e il popolo, e clan di guerrieri che si davano battaglia sotto il patrocinio di divinità totemiche.

Sebbene nel corso dei secoli numerose siano state le distruzioni e le ricostruzioni dei suoi edifici in legno e, malgrado la progressiva urbanizzazione che ha finito per circondare gli edifici sacri con quartieri di basse case senza eleganza, entrando nel Kamigamo l’idea di spazio sacro e circoscritto, che è propria dei santuari scintoisti, appare con molta chiarezza percorrendone il viale d’accesso, detto Sando, che aveva lo scopo di preparare i devoti all’incontro con la divinità.
Questo percorso, che qui è rettilineo e attraversa un prato, è comune a tutti i santuari scintoisti e viene considerato come un momento di presa di coscienza e di “adeguamento” mentale allo spazio sacro, che diventa totale partecipazione una volta superato il secondo torii, il portale che ne costituisce il punto d’arrivo.
Cerco di vivere questa sensazione di progressivo incontro con il divino, circondato da una folla numerosa, dove molti visitatori indossano abiti tradizionali.

Lo spazio che precede il santuario è tradizionalmente dedicato alla purificazione. Qui si trova la vasca dove ogni visitatore deve sostare per effettuare la tradizionale abluzione.
Prendo allora uno dei mestoli di bambù e mi verso l’acqua sull’avambraccio sinistro, lasciandola scorrere fino alla mano, poi ripeto il gesto con la destra, infine mi verso dell’acqua in bocca non avendo però il coraggio di sputarla in modo ostentato all’esterno della vasca come invece sarebbe costume e come fanno tutti i miei vicini. Prima di riporre il mestolo lo sciacquo, facendo scorrere dell’acqua lungo il manico.
I riti di purificazioni mi affascinano e trovo sostanzialmente giusto che, prima di entrare in uno spazio sacro, ci si debba sottoporre a un lavaggio non solo mentale ma anche fisico, lavaggio che significa consapevolezza che tutto lo sporco che ho accumulato su di me nel cammino viene portato via da un semplice gesto rituale. Questa con cui mi sono lavato non è un’acqua santa, ma solo acqua fresca e purissima, perché il santuario che mi appresto a visitare è un luogo di acque. Anche i due coni di sabbia che si trovano davanti a uno dei due padiglioni d’ingresso hanno una funzione purificatoria perché la sabbia è considerata in molte religioni come l’elemento sostituivo dell’acqua. Chiunque prenda parte a un rito scintoista, specialmente i sacerdoti, deve sostare in questo padiglione per compiervi riti di purificazione che spesso includono il digiuno.

Varco il primo ponte e mi accorgo che il santuario si trova su una specie di penisola, creata dall’incontro di due corsi d’acqua, e chiusa alle spalle dalla mole del monte Ko, sede originale del santuario del dio della Tempesta. Oltrepassare un ponte costituisce un momento simbolico di grande importanza nei santuari scintoisti e qui se ne passano addirittura due, prima di varcare una monumentale porta, detta Ro Mon, e trovarsi al cospetto dell’edificio principale l’Honden. La residenza della divinità, fu ricostruita nel 1863 in modo da replicare lo stile dell’epoca Heian, corrispondente circa al nostro periodo del romanico.
I pellegrini si avvicinano, si inchinano due volte, battono due volte le mani, per invocare la presenza dello spirito, recitano un’invocazione silenziosa, eseguono un altro inchino e si allontanano dalla balaustra dopo aver gettato almeno una moneta in una cassetta per le offerte. Mentre osservo questo semplice rituale, eseguito però da tutti i presenti con la massima serietà e partecipazione, un suono di tamburo proveniente dai recessi del santuario, mi fa capire come ci siano spazi a cui i visitatori non sono ammessi.
La logica del tempio scintoista è molto simile a quella dei templi antichi, in cui la parte più interna, quella dove si trovavano gli oggetti o le immagini più sacre, era ad appannaggio dei soli sacerdoti. Guardando oltre un pannello mobile, vedo alcuni devoti inginocchiati mentre ascoltano un’orazione recitata da un sacerdote scintoista dall’alto cappello nero. Il dio della Tempesta non ha un’effige da venerare. Se fossimo in Cina sull’altare principale campeggerebbe una statua di un dio dalle folte sopracciglia, dai lunghi capelli e dalla pelle blu o rossa, appoggiato su un letto di nuvole burrascose. Qui non c’è altro che un tabernacolo di legno. Lo scintoismo è una religione che non prevede la venerazione di immagini, e questa è senz’altro un’anomalia, perché le religioni arcaiche e politeiste hanno invece proprio nel culto delle immagini, spesso anche grottesche o spaventose, uno dei loro punti di forza. Come si figureranno i devoti questo dio della tempesta?
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