Sulla sacra isola di Srirangam, dove il grande fiume Kaveri, che per il Tamil Nadu ha una sacralità solo leggermente inferiore a quella dei grandi fiumi del Nord, incontra il più modesto Kollidam, sorgono templi di grandi dimensioni fisiche e spirituali. Non è però al più grande e venerato tempio vishnuita di Raganatha che rivolgo l’attenzione e, seguendo il mio percorso, mi dirigo verso il più modesto e tranquillo Jambukeshvara, tappa finale del pellegrinaggio dei cinque elementi sacri a Shiva di cui le precedenti tappe sono state Sri Kalahasti, Kanchipuram, Tiruvannamalai, Chidambaram.
Trovandomi su un’isola sacra è normale che l’elemento venerato in questo santuario sia l’acqua, una fonte sacra la cui acqua sommerge parzialmente il lingam, anche se la presenza di un albero di Jambu (o Jambol come è altrimenti conosciuto lo Syzygium cumini) è all’origine della fondazione del tempio che ne ha preso il nome. L’albero sorgeva accanto a uno stagno e qui si manifestò Shiva.
Il tempio si estende su cinque cortili, alcuni dei quali risalgono al XIII secolo, ma appare, se confrontato alle quattro precedenti tappe precedenti dello stalaam, fin troppo tranquillo, quasi offuscato dall’intensa vita religiosa che fa invece pulsare il suo vicino vishnuita. Ed è forse per questo che anche io, piuttosto mortificato dal divieto di ingresso ai non hindu che non mi permette di accedere alla sua parte più sacra, me ne sento escluso e decido di convogliare le poche energie fisiche e spirituali rimaste sul grande Ranganatha. Con i suoi sette cortili e i 21 gopuram, è una vera città tempio, di dimensioni tanto vaste da stordire. Questo tempio vishnuita è davvero straordinario anche se non ho ben chiaro se per un pellegrino dello stalaam sia giusto entrarci e quindi lo visito come se fossi un “infiltrato”. Che sciocchezza!

Dicono che la via vishnuita alla fede sia più improntata al pragmatismo rispetto a quella shivaita, dalle venature più mistiche e spirituali, e la visione di un gruppo di bramini intento a contare montagne di banconote e monete in una delle sconfinate sale del tempio sembra esserne la conferma. Paragonato a tanta ricchezza, a tanta imponenza e a tanta vivacità il “piccolo” Jambukeshvara finisce per esserne offuscato. Eppure questo tempio, edificato dalla dinastia Chola nei primi anni dell’era cristiana, piccolo non lo è davvero, e farebbe un’impressione ben diversa se collocato in un qualsiasi altro contesto.
L’acqua, la cui contemplazione mi è stata negata dai divieti, mi viene però incontro quasi casualmente poco lontano. Mi imbatto in un ghat pulsante di vita, dove molti pellegrini vanno a immergersi nelle torbide acque del Kaveri con la stessa leggerezza con cui si immergono nelle acque di ogni fiume sacro. Uomini e donne sono separati solo da semplici pannelli e anche il pudore, che regna sovrano in quasi tutti i luoghi sacri del mondo, pare qui cadere, come se i corpi che si immergono in quelle acque non siano più fatti di carne, la carne vitale e pulsante che tanto fa gioire e soffrire i mortali, ma siano solo semplici veicoli, utili a trasportare in quelle acque qualcosa di molto più puro e incorruttibile che nulla ha a che vedere con il suo provvisorio contenitore.

Attorno ai gradini che conducono nell’acqua si svolge una vita che pare risolversi in un attimo, fatta di apparizioni e voci, di annunci di altoparlanti e rintocchi di campana.
In piedi, vicino ai gradini, guardo disorientato l’acqua del fiume che non saprei definire con un aggettivo senza inquinarla con osservazioni inopportune. Guardo volti, apparentemente imperturbabili, di uomini vetusti, arrivati qui dopo un cammino di cui non è neppure ipotizzabile immaginare la durata, uomini che si denudano con naturalezza, magri e scuri, con lunghi capelli e si abbandonano per pochi secondi a un abbraccio materno. L’acqua di Srirangam è un acqua che mi fa pensare a consistenze primordiali, a torbidezze amniotiche, non certo a cristalline fonti alpine. La sua purezza non è certo dovuta all’apparenza o al suo contenuto batteriologico; questa è una purezza che parte dai miti, scorre sui corpi, si nutre di leggende ed eventi persi nella notte dei tempi. Nella nostra ingenuità e presunzione ci illudiamo che basti conoscere una realtà per poterla possedere e che dietro un codice “nostro” ci sia una valenza universale. L’acqua di Srirangam ci dimostra di come la realtà sia diversa.
Anche se l’entità acquatica del lingam mi è stata resa invisibile, sono più che mai cosciente di come la vera conoscenza dello spazio sia condizionata dalla nostra impreparazione.
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Srirangam is a large island of Tamil Nadu where the great Kaveri River, the Southern Gange, meets the Kollidam, an ancient pilgrimage site, where two huge temples are located. The largest is the vishnavite Raganatha but I firstly focus on the smallest and quiet Jambukeshvara, the final step on the Five Elements Pilgrimage after Sri Kalahasti, Kanchipuram, Tiruvannamalai and Chidambaram.
The Jambukeshvara temple celebrates the water of a secret spring that covers part of the holy lingam even if Jambu is the name of a tree standing near a pond where Lord Shiva manifested itself. Unfortunately, non-Hindus are not allowed to the darshan of the water lingam so I walk sadly in the quiet and rather sleepy temple before deciding to visit the not-so-far impressive and dynamic Raganatha. As Jambu has three courtyards, Raganatha has seven and 21 Gopuram towers: a real temple-city. Looking in a dark hall I see some Brahmins seated counting an impressive accumulation of money. As I came here as a pilgrim on the Shiva’s tradition I feel myself like a stranger in this place consecrated to Vishnu…

The water, I couldn’t see in the Jambu temple waits for me not far away. A small Ghat, the traditional immersion place for Hindus, on the Kaveri river, shows me the usual life of devotion of the Indian holy cities. Men and women share the immersion separated from a little screen. Modesty seems to fall here, as if the bodies immersed in those waters are no longer made of flesh, the vital and pulsating flesh, but are just simple vehicles, transferring in the waters something much purer and incorruptible than its temporary shell. On the steps leading into the water, life seems to end in a moment, a life made of apparitions and voices, announcements of loudspeakers, and tolls of bell. Standing rather confused next to the steps, I look at the river’s water I cannot define with an adjective without polluting it with inappropriate observations. I look at faces, apparently imperturbable, of old long-haired men, arrived here after a journey whose duration cannot even be imagined, men who naturally denude themselves, thin and dark, before melting for a few seconds in a maternal embrace. The Srirangam water remembers me primordial fluids, amniotic turbidity, certainly not the crystalline water of alpine sources. Its purity is not due to its appearance or bacteriological content; this is a purity that starts from myths, flows on the bodies, feeds on legends and events lost in the mists of time.
Even though the aquatic entity of the lingam has been made invisible to me, I am more conscious than ever of how the true knowledge of space is conditioned by our unpreparedness.
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