Uno dei grandi Viaggi dello Spirito ci porta nel sud dell’India, per compiere, insieme a migliaia di pellegrini, il pellegrinaggio dei cinque elementi, il Pancha Bootha Stalam. Ne abbiamo già parlato in un post precedente, ma ora vorrei presentarvi, con cinque brevi storie, i singoli templi, ciascuno dedicato a un elemento, sperando di far nascere il desiderio di scoprirli insieme a noi. Iniziamo da Sri Kalahasti, dove risiede l’Aria.
Vayu Stalaam
Effonde la sua grazia sui peccati e sulle difficoltà dei suoi devoti lo spirito di Sri Kalahastiswar (ma per i fedeli hindu forse più che di spirito si tratta di vera e reale presenza) che con Sri Gnanprasunambika Devi ha dimora in questo tempio.
Per lui i pellegrini si incolonnano pazienti per compiere il loro darshan.
Poeti e mistici hanno fatto visita a questo appartata città santuario, che sorge appena oltre i confini dell’Andhra Pradesh, lontano dai luoghi più visitati del Tamil Nadu e, per questo, praticamente ignorata dalla maggior parte dei viaggiatori occidentali.
Con vivace simbolismo il luogo fu conosciuto come il Kaliash del Sud e il piccolo fiume che gli scorre accanto, naturalmente, come il Gange del Sud!
Questi riferimenti devono essere intesi esclusivamente in senso spirituale perché né l’uno né l’altro hanno qualcosa a che vedere con i modelli originali.
Il santuario di Sri Kahalasti non ha neppure l’impressionante mole di altri templi dravidici che si trovano più a sud (anche perché uno dei suoi gopuram è crollato un paio di anni fa!) e sorge in un angolo di tranquilla campagna ricordando, anche nella sua atmosfera semplice e vagamente disordinata, uno dei tanti santuari rurali così comuni anche nell’Europa cristiana.
Il suo nome nasconde un curioso gioco di parole poiché unisce tre animali che tributarono a Shiva, a loro apparso nella sua forma aerea, una grande devozione.
Al ragno (Sri), al cobra (Kala) e all’elefante (Hasti) fu concessa la liberazione dal ciclo delle rinascite e la salvezza proprio in questo luogo che da allora prese il loro nome.
Nel santuario principale si trova ancora una statua che ricorda questa leggenda.
Il tempio risale all’epoca Pallava ma venne rinnovato nell’XI secolo dai sovrani della dinastia Chola. Altri ampliamenti vennero apportati in epoca Vijanagara (XVI secolo) e di nuovo nei primi anni del XX secolo.

E’ un giorno di agosto mite e piacevole. La notte precedente un vero nubifragio ha flagellato la regione e la terra pare risplendere di vita. Inizio da qui il mio pellegrinaggio shivaita, anche se la sequenza codificata lo vorrebbe come quarto.
I percorsi divini hanno una loro logica, il mio, pensato per un povero viaggiatore occidentale soggetto a tempi e organizzazioni (Shiva mi conceda la liberazione da tutto ciò!), risponde purtroppo più a canoni geografici. Per questo parto da nord est, dopo aver visitato il non lontano sacro monte di Tirumala.
Non avendo ancora scoperto l’ingresso principale, accedo al tempio di Kalahasti dall’ingresso secondario adiacente al parcheggio, lasciando le scarpe incustodite ai piedi di una ripida scala. E’ la prima volta e lo faccio e, posseduto da insane manie di possesso, me ne distacco con una certa preoccupazione. Come sono teneri e sensibili i miei piedi! Come la terra su cui li poso mi pare aspra, dura e dolorosa! Come temo di vedermi le piante insozzate! I miei occhi scrutano il pericolo in sasso appuntito, in un residuo umano o bovino, nelle tracce di scivoloso ghee, e persino in un petalo calpestato. Poi la folla. Non c’è molta gente in questo tranquillo giorno feriale, eppure il naturale brusio si fa fin dall’ingresso rumorosa confusione, mentre altoparlanti diffondono musiche e annunci nella tambureggiante lingua locale, ribaditi da scritte luminose che scorrono su pannelli.

Varcata la porta ed entrato nel primo cortile, vengo accolto dalla piacevole animazione che distingue i templi del Tamil Nadu, con le lunghe file di fedeli che aspettano il loro turno per compiere il darshan, la visione del divino.
Questo rito si ripete in vari altari e implica, oltre alla pazienza e alla tranquilla accettazione delle code, un certo esborso economico, perché i bramini sono implacabili nel riscuotere oboli. Mi metto disciplinatamente in coda e stimo che il tempo di attesa possa essere di un’ora. Prima di decidere del mio imminente destino, scopro che, con sano pragmatismo indiano, classista e selettivo, pagando una tariffa “special” posso evitare gran parte della coda infilando una corsia preferenziale. Portando dentro di me sensi di colpa per secoli di colonialismi di cui sono fisicamente ma non geneticamente incolpevole, infilo quindi una vuota corsia transennata con malcelato imbarazzo, osservato da file di grandi occhi, grandi denti, nasi con orecchini, veli colorati, mani magre, piedi lunghi e ossuti. Anche i privilegi però hanno un limite e, dopo un non breve avanzare nella penombra, scopro che la corsia degli “speciali” si fonde in ultimo con quella dei comuni mortali.

Infilarsi in una coda è sempre imbarazzante, specialmente essendo l’unico occidentale presente nel tempio, ma fortunatamente noto che tra i fedeli la curiosità prevale sul sospetto e la parola magica “pancha bootha stalaam”, che butto lì per darmi una giustificazione, ha l’effetto di farmi subito guardare con un turbinoso interesse. Tutti mi indicano, sussurrando la parola magica, e annuiscono con ammirata approvazione al pio intento. Così il tempo passa e quando arrivo al momento fatidico dell’incontro con la divinità non so davvero cosa aspettarmi. Shiva, che qui è venerato nella forma dell’aria, è davvero una presenza impalpabile e la visione del suo lingam, che forse ha la stessa consistenza del vento, mi appare solo come un’ombra, nascosta nel cuore di una cella scura. Severissimi bramini, dopo aver controllato con movimenti eloquenti di sopracciglia, che le offerte vengano correttamente deposte davanti alla cella, cmi indirizzano in un percorso obbligato in cui mi accade di sfiorare del fuoco, farmi cospargere la fronte con cenere e purificarmi le mani con acqua profumata! Poi, tra spinte e svolte tortuose nel buio labirinto che si nasconde nel cuore del tempio, riemergo di nuovo alla luce. Nel cortile ho visioni di famiglie che mangiano riso usando pagine di vecchi quotidiani come tovaglia, bracieri alimentati da ghee, musicisti che rimano sui tabla. Due anziani turisti inglesi, i primi occidentali incontrati, donano monetine ai mendicanti, dimostrando cuore tenero e disponibilità a esserne continuamente assillati. Sono venuto a omaggiare il vento ma il vento oggi diserta Kalahasti, accontentandosi di donarmi oggi solo una leggera brezza che riesce a fatica a muovere le foglie degli alberi rendendo il clima sopportabile.

Scopro solo ora la strada che conduce al tempio e resto affascinato dalla multicolore varietà di stampe popolari che si vendono nelle bancarelle; ciascuna di loro ha una storia da raccontare, con un intreccio di significati e segni bene augurali, altre mostrano invece volti benevoli di guru e dei che mi sono sconosciuti. Non pretendo di capire e di conoscere, questo è solo il primo tempio del mio cammino e posso solo chiedere che la comprensione mi venga offerta con i tempi necessari.
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Vayu Stalaam
The spirit of Sri Kalahastiswar, that with Sri Gnanprasunambika Devi has dwelled in this temple. shines his grace on the sins and difficulties of his devotees (but for the Hindu more than a spirit it is a true and real presence)
Poets and mystics have visited this secluded sanctuary, which rises just beyond the Andhra Pradesh borders, far from the most visited places of Tamil Nadu and, for this reason, practically ignored by tourists.
The place was known as the South Kailash and the small river that flows beside it, of course, as the South Ganges!
The shrine of Sri Kalahasti does not even have the impressive mass of other Dravidic southern temples (one of its gopurams collapsed a couple of years ago!) and rises in a quiet corner of the countryside, recalling, even in its simple and vaguely disordered atmosphere, one of the many rural sanctuaries so common in Christian Europe.
His name unites three animals: the spider (Sri), cobra (Kala), and elephant (Hasti) were granted the liberation from the cycle of rebirth and salvation in this place that took their name.
The temple dates back to the Pallava period but was renovated in the eleventh century by the kings of the Chola dynasty. Other enlargements were made in the Vijayanagara period (16th century) and again in the early 20th century.
It is a mild and pleasant day in August. The night before a real storm plagued the region and the land seems to shine with life. I start from here my Shivaita pilgrimage, even if the codified sequence would like it as a fourth.
The divine paths have their own logic, mine, conceived for poor western travelers subject to times and organizations (Shiva grants me the liberation from all this!) unfortunately responds more to geographical canons; for this reason, I start from the north-east, after visiting the not far away sacred mountain of Tirumala.
Having not yet discovered the main entrance, I enter the Kalahasti temple from the secondary entrance adjacent to the parking lot, leaving my shoes unattended at the foot of a steep staircase. How tender and sensitive are my feet! How the ground seems harsh, hard, and painful! My eyes find dangers in sharp stones, in human or bovine residues, in the traces of slippery ghee, and even in a petal trampled underfoot. There aren’t many people on this quiet, working day, yet a natural buzzing rises from everywhere, while loudspeakers spread music and announcements in the local language.
After crossing the door and entering the first courtyard, I’m greeted by the animation that distinguishes the temples of Tamil Nadu, with the long rows of believers waiting for their turn to perform the darshan, the vision of the god’s shape.
This ritual is repeated in many altars and implies, in addition to patience and quiet acceptance of queues, a certain economic outlay, because the Brahmins are implacable with offers. I’m queuing up and, although it is not a day of great attendance, I estimate that the waiting time can be one hour. I discover that, with a typical Indian pragmatism, classist and selective, paying a “special” fare you can avoid much of the queue, by using a preferential lane. Feeling guilty for centuries of colonialism I, therefore, infill an empty lane, observed by rows of large eyes, large teeth, noses with earrings, colored veils, thin hands, long feet, and bony hands. Privileges, however, also have a limit and, after a not brief advance in the semi-shade, I discover that the “special” lane merges with that of ordinary mortals. Entering a queue is always embarrassing, especially being the only Westerner in the temple, but I notice that curiosity prevails over suspicion and the magic words “pancha bootha stalaam” have a magical effect. Everyone looks at me, whispering the magic word, nodding with admired approval to my pious intent. When the moment of encounter with the divinity comes I really don’t know what to expect. Shiva, who is worshipped here in the form of air, is truly an impalpable presence and the vision of His lingam, which perhaps has the same consistency as the wind, appears to me as a shadow, hidden in the heart of a dark cell. After checking with eloquent movements of eyebrows that the offers are correctly placed in front of the cell, priests lead me on an obligatory path in which it happens to be grazed with fire, sprinkled with ash, and purified with perfumed water! In the courtyard, I have views of families eating rice using pages of old newspapers such as tablecloths, braziers fed by cheeks, musicians who play tabla. I come to pay homage to the wind, but there’s no wind today in Kalahasti, only a slight breeze that can hardly move the leaves of the trees and make the climate a little bearable.
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