Chua Bai Dinh è un enorme tempio buddista che occupa il pendio di una collina. Costruito a partire dal 2002 è un notevole esempio di capacità artigianale e di uso di materiali naturali, una nuova costruzione ma con lo spirito proprio delle costruzioni antiche.
Quando visito una nuova chiesa o un nuovo monastero, siano essi semplici ed elementari nelle loro strutture o siano firmati da grandi architetti come Mario Botta o Le Corbusier, non posso fare a meno di pormi ogni volta la domanda: ma può qualcosa di nuovo raggiungere le capacità formali ed evocative dei modelli originari? La risposta è quasi sempre un “sì”, anche perché pensare il contrario vorrebbe dire che, risalendo sempre ai prototipi, l’unico modello valido possa essere la basilica romana o una semplice capanna. Molto più facile diventa il ragionamento quando ci si trova davanti a un tempio della tradizione orientale, in particolare di quella di scuola cinese. Il modello originario non è qui interpretato dall’architetto ma riproposto nel modo più fedele possibile così che spazi, materiali, decorazioni siano rispettati e riproposti.

Quando arrivai alla pagoda di Chua Bai Dinh, che si trova nel Vietnam Centrale, non sapevo cosa aspettarmi. Veniva infatti presentata come la pagoda più grande del Vietnam, anzi uno dei templi buddisti più grandi dell’Asia, ma sapevo anche che non era ancora completata e che i lavori di costruzione duravano da più di dieci anni. Il primo approccio fu piuttosto spiazzante: un grande posteggio con bar, ristoranti, negozi di souvenirs, che fungeva da terminal per un serie di trenini su ruote che portavano all’ingresso vero e proprio del tempio, a circa un chilometro di distanza. La sensazione, come potete immaginare, era quella di trovarsi più in un parco di divertimenti che in luogo dello spirito. La curiosità si stava quindi trasformando in diffidenza e in un malcelato senso di disapprovazione, rivolto alla capacità tutta asiatica di esagerare e contaminare ogni cosa. Salire sul vagoncino unitamente a famiglie di vietnamiti felici accresceva questo senso di “amusement experience” che ben poco ha a che fare con i luoghi dello spirito. Il resto della visita però confermò la teoria che, pur conoscendola, spesso ignoro: mai partire con troppi pregiudizi perché si rischia il più delle volte di essere smentiti. La pagoda (in Vietnam questo nome viene dato a tutti gli edifici buddisti) occupava il versante di una collina: il trenino ci lasciava davanti a una porta monumentale e, subito all’interno si trovava un tempio che accoglieva i pellegrini. Da lì un camminamento coperto fatto in legno abilmente lavorato, risaliva il pendio mostrando ai lati degli scalini ampi ed agevoli, la collezione dei 500 Arhat, gli illuminati della tradizione Mahayana, ciascuno scolpito nella pietra con la sua espressione, il suo cipiglio, i suoi attributi simbolici. Le statue erano del tutto canoniche, secondo il gusto cinese ma eseguite con cura a abilità dagli artigiani locali. Proprio questa capacità di riprendere in modo quasi maniacale le forme del passato è da secoli il valore massimo nel mondo di cultura e formazione cinese, ma qui aveva in più il pregio di aver dato lavoro per anni a una comunità non certo ricca e prospera. Risalendo il pendio, una serie di terrazze ospitava i templi, tutti in legno e tutti di grandi dimensioni, al cui interno si trovavano enormi statue di Buddha dorate, che niente avevano da invidiare a quelle antiche. La grandezza del tempio, la vastità degli spazi avevano il pregio di disperdere la folla e quindi la visita poteva garantire un senso di relativa serenità, accresciuta dal fatto che, più si saliva, più si apriva lo sguardo sul panorama di risaie e picchi che caratterizza la bellissima regione di Ninh Binh. Su una piattaforma adiacente svettava una pagoda di dodici piani, più in alto ancora emergeva una gigantesca statua del Buddha… tutto grande, tutto splendente di quella strana antica novità che era propria del tempio.

Mentre sedevo guardando l’orizzonte, venni raggiunto da un gruppo di studenti che era sbucato da un sentiero laterale, portando rumori e risate ovunque. In un attimo mi ritrovai al centro di selfie e ritratti perché, evidentemente, un occidentale accaldato e attempato è una preda ancora rara da queste parti! Questa irruzione mi portò poi a ripercorrere quel sentiero. Scoprii allora che, alle spalle del livello più alto del tempio, era stato costruito un piccolo villaggio di alberghi, ostelli, ristoranti per pellegrini vietnamiti che vi arrivavano con autobus seguendo una strada diversa. E allora la vitalità popolare e rumorosa che accumuna tutti i luoghi di pellegrinaggio del mondo e che tanto mi affascina, mi si ripresentò, in questa sua variante vietnamita, in quel luogo nuovo e maestoso costruito sulla memoria di una comunità.

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Chua Bai Dinh is a huge Buddhist temple that occupies the slope of a hill. Built in 2002 is a remarkable example of craftsmanship and use of natural materials, a new construction but with the spirit of the ancient buildings.
When I visit a new church or a new monastery, whether they are simple and elementary in their structures or signed by great architects such as Mario Botta or Le Corbusier, I can’t help asking myself this question every time: can something new reach the formal and evocative capacities of the original models? The answer is always “yes”, thinking the opposite, you mean are always going back to the prototypes and the only valid model could be the Roman basilica or even a simple hut. Easier to think when you are in front of an Eastern Temple of the Chinese school. The original model is not interpreted by the architect here but is proposed as faithfully as possible so that spaces, materials, and decorations are respected and proposed again.
When I arrived at the Chua Bai Dinh pagoda in Central Vietnam, I didn’t know what to expect. It was presented as Vietnam’s largest pagoda, indeed one of Asia’s largest Buddhist temples, but I also knew that it was not yet completed and that construction work had been going on for more than ten years. The first approach was rather disorienting: a large parking lot with bars, restaurants, souvenir shops, which served as a terminal for a series of small-wheeled trains leading to the actual entrance of the temple, about a kilometer away. The feeling, as you can imagine, was that you were more in an amusement park than in place of the spirit. Curiosity was therefore turning into distrust and a badly disguised sense of disapproval, aimed at the Asian ability to exaggerate and contaminate everything. Getting on the wagon with families of happy Vietnamese increased this sense of “amusement experience” that has very little to do with the places of the spirit. The rest of the visit, however, confirmed the theory that, although I know it, I often ignore: never start with too many prejudices because there is a risk of being denied most of the time. The pagoda (in Vietnam this name is given to all Buddhist buildings) occupied the slope of a hill: the train left us in front of a monumental door and, immediately inside there was a temple that welcomed pilgrims. From there a covered walkway made of worked wood climbed up the slope showing at the sides of the wide and easy steps the collection of the 500 Arhat, the illuminated of the Mahayana tradition, each carved in stone with its expression, its symbolic attributes. The statues were completely canonical, according to Chinese taste but carefully executed by local craftsmen. This ability to take up in an almost maniacal way the forms of the past has been for centuries the highest value in the world of Chinese culture and education, but here it had the added value of having given work for years to a community certainly not rich and prosperous. On the slope, a series of terraces housed the temples, all made of wood and all of the large dimensions, inside which there were enormous statues of golden Buddha, which had nothing to envy to the ancient ones. The size of the temple, the vastness of the spaces had the merit of dispersing the crowd and therefore the visit could guarantee a sense of relative serenity, increased by the fact that the more you climbed, the more you opened your eyes to the panorama of rice fields and peaks that characterizes the beautiful region of Ninh Binh. On an adjacent platform a twelve-story pagoda stood out, and a giant statue of the Buddha still stood out above it… all great, all shining with that strange ancient novelty that was proper to the temple.
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